[Dietro la storia] Il Carnevale a Venezia
Negli ultimi mesi – possiamo dire dall’inizio
di agosto – ho notato un notevole interesse nei confronti del mio romanzo, “Il Carnevale
a Venezia”. Si tratta naturalmente di un successo relativo (per chi m’avete
preso, per una che ha la Feltrinelli a pararle le spalle?) ma la cosa non può
che rallegrarmi perché inaspettato, quanto motivo di un certo orgoglio.
Il Carnevale a Venezia rientra nella categoria di opere nate e scritte per mero piacere
personale (beh, quali non lo sono?).
La sua genesi risale a – boh, il 2015? – quando
su un forum on-line di cui ero utente indisse un concorso per racconti inerenti
al carnevale, siccome eravamo a metà gennaio.
Ricordo di essermi detta: “Dai, stavolta
partecipo!”. Ma come al solito non tenevo conto della mia incurabile
idiosincrasia per le scadenze (sappiate che arriverò 5 minuti in ritardo anche
al mio funerale) e alla fine carnevale passò (il concorso lo vinse qualcuno) e
la bozza di idea che avevo elaborato rimase in un angolo della mia mente, a
sobbollire come un ammasso di verdure spezzettate a mollo nel brodo.
Questo era il cuore. Come spesso mi capita, ero
intrigata dall’essenza della mia idea ma il primo contesto in cui l’avevo
trovata non mi convinceva: il personaggio non aveva tratti distintivi, il borgo
immaginario non mi comunicava nulla e, insomma, la cornice mi appariva così
banale che non valeva la pena essere sviluppata. Ma il cuore rimaneva.
Ed è rimasto finché, se non sbaglio, non lessi
uno stimolante saggio su Halloween. Già.
Riassumendo all’ennesima potenza (quindi non mi
prendo la responsabilità se fraintendete) il saggio, basato sulle credenze
pagane che precedevano e hanno dato le basi al cristianesimo moderno,
discorreva in primis sul significato della festa degli spiriti in Italia e della
sua evoluzione nel tempo, poi allargava il contesto alla suddivisione dell’anno
in periodi di vivere “normale” intervallati da precisi dodekameron (cioè intervalli
di dodici giorni) in cui il mondo del sovrannaturale prendeva il sopravvento
sulle abitudini umane.
Una visione suggestiva che fece cuocere brodo e
verdure, trasformandole finalmente in una bella zuppa.
Da lì, l’idea imboccò la strada giusta.
Qual era la città perfetta per ambientarvi un
racconto di carnevale? Non c’è neppure bisogno che lo dica (d’altronde c’è
anche nel titolo, che ve lo ripeto a fare?).
Quali ingredienti dovevo amalgamare per
imbastire quello che la mia fantasia stava sognando?
Tutti.
Volevo tutto. Volevo l’eccesso, i colori, i
fantasmi, gli angeli, l’ironia, la leggerezza, le regole sovvertite e una
storia che si permetteva qualunque digressione, amorale come la bellezza
intrinseca del carnevale, quando i poveri potevano permettersi di
gozzovigliare, di alleggerirsi, di vivere quell’unica volta all’anno, prima di
tornare a mortificarsi in Quaresima sotto il giogo dei ceti benestanti.
Trovai nello stile barocco il nido in cui far
crescere il romanzo, rifacendomi a quei canoni settecenteschi in cui tutto
doveva essere portato all’apoteosi. Il registro di scrittura è pretenzioso, a
tratti aulico, forbito, sono andata alla ricerca di termini quasi in disuso e
ho rispolverato formule narrative arzigogolate e complesse, i dialoghi sono
altisonanti e chi li pronuncia ha una personalità grande abbastanza da riempire
la scena con la sua boria.
È stato divertente. Adoro giocare con la lingua
italiana e scoprire (vecchie) nuove parole la cui eredità ci rincorre ancora
oggi, sebbene in pochi ne siano al corrente, ed è stato un bellissimo esercizio
di cultura, di scambio, del confermare quanti splendidi e complicati concetti
si riescano a spiegare adoperando semplicemente un vocabolo, che sia quello
giusto.
Volevo anche i paradossi, il mistero che
mistero è solo per i miseri mortali, la ricerca logica in un mondo oscillante e
scintillante, ed ecco presentarsi Lorenzo, il protagonista, il punto di
connessione tra la dimensione razionale e quella divina. L’interlocutore che
sta a metà tra il lettore e quei dannati spettri che si prendono gioco di tutto
e tutti, danzando su un immenso palcoscenico divertendo a tenerci nascosti i segreti
dell’oltre.
Un giallo che è variopinto, due morti illustri,
un’arma rubata e una presunta vittima che è il burattinaio per antonomasia,
arduo da scovare, difficile da trattare, impossibile resistergli.
La città è una Venezia astrale, un cristallo
che riflette le sfaccettature del fantastico, ospitando mostri e fate, folletti
e grifoni, bene e male, in cui l’equilibrio è stabilito dall’influenza del
Carnevale che è liberazione, passione, euforia, gioia, edonismo. I veneziani si
addobbano con i costumi più vistosi, i palazzi antichi riaprono vecchi anditi
che si affacciano al passato, le Maschere passeggiano per le calli elargendo
con generosità deliquio, prosperità e trastulli.
E il Re che, come un’ombra appariscente, vaga
nel suo regno sotto gli occhi di chiunque e visto da nessuno.
“Il Carnevale a Venezia” è una piccola gioia
che non credevo sarebbe stata apprezzata – non così tanto, almeno. La redassi
per diletto personale, la aggiustai qualche volta per ampliare a dovere alcune
riflessioni, impalcai un ordito dell’assurdo che io trovavo geniale ma non mi
aspettavo che la mia opinione venisse condivisa perché, diciamoci la verità,
non è che il mio gusto e quelli altrui si incontrino sovente. E invece.
E invece scopro che non sono l’unica ad amare
la lingua italiana in maniera tanto variegata e flessibile, uscendo dai binari
prestabiliti in cui molti autori moderni sembrano incanalarsi, quasi avessero
timore che un virtuosismo lessicale li renda dei fenomeni da baraccone – o
soggetti al pubblico ludibrio.
Mi piace pensare di aver scritto di un mood anziché di una storia. Uno stato
dell’essere, una condizione dell’animo, un frammento che ognuno di noi possiede
e che a volte chiede di emergere, con levità pur senza scadere nella decadenza.
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