Chi sono
Mentirei se dicessi che non amo parlare di me.
Ma, nel corso del tempo, ho imparato a non
farlo con chi non me lo chiede.
Fino a poco tempo fa non avevo nemmeno in mente
di creare questa pagina, finché un mio professore non la andò appositamente a
cercare, curioso di sapere come mi presentassi.
Di solito è semplice: non mi presento.
Potrei sciorinarvi la mia biografia completa
(nata a, residente a, ha frequentato l’istituto, ha lavorato in), o potrei
stordirvi con una sfilza di mie pubblicazioni a partire dalla notte dei tempi a
oggi, ma si tratta di un genere di cose di cui me ne sbatto (scusate il francesismo) quando riguardano gli altri.
Figuriamoci quando riguardano me.
Sono un personaggio.
Ovviamente Livin Derevel non è il mio vero
nome, bensì è uno pseudonimo che nacque tra il 2008 e il 2009, quando cominciai
col pubblicare fan-fiction su EFP (sì, ero una di quelle. E alimentavo anche un
discreto numero di flame).
Cercavo uno sfogo per una passione che mi
rincorreva sin da che ero in tenera età – e con tenera età intendo 8/9 anni, da
quando su blocchi a righe abbozzavo una trama che mi è rimasta incollata
addosso per molto tempo, e che non sono ancora riuscita a cacciar via del
tutto.
Agli albori dell’adolescenza scrissi a mano (ripeto: A MANO) con una matita (ripeto: MATITA) un intero
romanzo fantasy, riempiendo due vecchie agende e mezzo dell’assicurazione. La
storia, come prevedibile, è un discreto coacervo di banalità redatte con uno
stile primordiale, straripante di avverbi (sono stati il mio sollazzo per anni,
ma ora sono guarita) e con dialoghi rigidi e impostati, influenzati da un certo
manga di Kaori Yuki che leggevo all’epoca. Ma tutt’ora custodisco quelle agende
in buste di plastica, nella cassettiera, simbolo di una tappa che già allora
aveva significato tanto per me.
Ovvero: terminare un romanzo. Imperfetto, infantile,
non troppo originale. Ma le dinamiche avevano funzionato. Avevo delineato una storia
coerente, vi avevo inserito personaggi – due o tre parecchio interessanti,
modestia a parte – funzionali e che bene o male avevano svolto il loro dovere,
c’erano state scene di grande pathos
(un po’ patetiche, pure), e il finale a scena aperta come piacciono a me.
Oh, ed era LGBT.
Non so che dirvi.
L’acquoso romanticismo forzato ed eterosessuale
dei libri che leggevo doveva già darmi la nausea.
Sono sinceramente convinta che scrivere sia la
mia vocazione.
Un seme radicato da qualche parte nel mio io,
un’elica del DNA preposta a questo, una deformazione psichica ereditaria oppure
acquisita attraverso chissà quali vie. Non saprei giustificarlo.
Posso soltanto affermare che scrivere è l’unica
attività che, quando la svolgo, mi dà la certezza di non dover fare null’altro.
È la priorità. Il fine ultimo. Sempre al centro
dei miei pensieri.
Trovo a volte difficile spiegare quanto importante sia la scrittura, per
la mia identità. Basta cliccare due parole su Google e il web ci rivela un
ventre pieno di autori, alcuni dei quali sfornano libri su libri a una tale
velocità che a me non basterebbe nemmeno per il prologo di un racconto, altri
che sono in grado di scrivere di getto, per ore, soddisfatti del proprio
operato. Non so se loro possiedano il mio stesso seme.
Neanche mi interessa.
So solo che, per me, scrivere è catarsi.
È sublimare la mia persona, concentrarla,
mallearla, estrapolarne il meglio per creare dal vuoto altri mondi, altre vite,
altre emozioni che non ho visitato, che non conosco, che non ho vissuto, ma che
eppure diventano tangibili sotto le mie mani, intersecandosi con la mia realtà,
spalancandone le porte. Immagino che si intenda questo, quando si parla di
viaggiare con la fantasia.
Ogni tanto mi scopro a esplorare le mie opere
come se fossi un’estranea.
Con la curiosità di Salgari, faccio ricerche
assurde e disparate su luoghi che non ho mai visto, su aspetti che non
interessano a nessuno, su animali, piante, architettura, folklore e altre
amenità in cui mi addentro con la gioia di un’Alice che sfugge alla piatta
normalità delle sue lezioni. Quei luoghi li faccio miei, me li figuro, spio
dentro le finestre e li abbraccio a volo d’uccello, sperando che mi sussurrino
segreti da adoperare in maniera innocente, per diletto, per pochi.
I personaggi sono materia viva. Hanno spessore,
personalità, inclinazioni e desideri che io stessa impiego mesi per conoscere,
e ci sono state occasioni in cui non siamo riusciti a trovare un compromesso.
Non lo dico con leggerezza. Ho sudato, mi sono spazientita, ho cercato di modificare
punto di vista, ma ho dovuto nascondere più di un romanzo in un cassetto perché
i protagonisti stessi mi dissero “Io e te
non andiamo d’accordo”.
Libertà.
Scrivere è il mio esercizio di libertà,
intellettuale, sentimentale, civile, parossistico (al limite del patologico,
forse), una disamina approfondita che mi porta a condurre esistenze separate ma
connesse da cui, da molti anni, non riesco più a scindermi.
A questo punto, però, ci tengo a dire che prima
di essere una scrittrice, mi ritengo una lettrice.
Non si può prescindere.
Rabbrividisco quando mi trovo a parlare con un
autore il quale afferma di non leggere molto perché “non fa per me”. Sappiate
che per me tali soggetti dovrebbero darsi all’uncinetto e lasciar stare le
tastiere.
Leggere è per la mente quel che il cibo è per
il corpo. Non possiamo sopperire ai nostri bisogni, ai nostri capricci, alle
nostre necessità di crescita senza introdurre sostanze che vengono
dall’esterno, che possiamo elaborare, manipolare, capire, sezionare, assimilare,
trasformare in elementi capaci di arricchirci, di migliorarci, di mantenerci in
continuo rinnovamento.
Parlando per me, giudico una lettura “bella”
quando è riuscita a trasmettermi qualcosa di nuovo. Che sia una storia brillante,
un vocabolo sconosciuto, un’emozione inaspettata, uno stile coinvolgente, un
messaggio forte. Leggere è un’evasione a buon mercato che però può condurre
molto lontano, grazie a mille aspetti soggettivi che ogni lettore potrebbe
cogliere in maniera differente.
Leggere ci pone davanti un ventaglio di
sfaccettature che, così come un’intercalare udita molte volte o una pronuncia
che è costante nelle nostre orecchie, pian piano assorbiamo come le foglie
sintetizzano la luce del sole. Alcune di quelle sfaccettature vengono dilavate
dagli eventi, dal tempo o da noi stessi, che non ne siamo ricettivi, mentre
altre ci rimangono impresse, aggiungendo un tassello alla volta al mosaico che
siamo, in perpetua evoluzione.
Cerco di prestare attenzione ai tasselli che
raccolgo durante la lettura.
Ricordo con fervore l’indelebile intensità
delle sensazioni suscitatemi da “Chiamami col tuo nome” (lo lessi appena uscito
nelle librerie: lo amavo da prima che diventasse mainstream), e non manco mai
di avvertire un brivido sbirciando le pagine dell’eccezionale prosa del Lionel
Shriver di “… e ora parliamo di Kevin”. Mi commuovo al solo ripensare alla
dolcissima storia narrata in “Oh, boy!” della Murail, e provo un sadico (ma
forse anche masochistico) piacere nel rendermi conto di quanto il “Dizionario
del diavolo” di Bierce sia ancora ferocemente attuale.
Questi sono pochi degli esempi che potrei
citare per spiegarvi quali luci ho sintetizzato – e continuo a fare – per diventare
quel che sono ora.
Chi sono ora.
Non credo di essere brava a inventare storie.
Ma me la cavo a raccontarle.
Sono una persona che interiorizza molto.
Ascolto, guardo, studio, interpreto, analizzo sia col cuore che con la ragione
e spesso tento di empatizzare, comprendendo pur senza farmi travolgere. A volte
mi viene bene, a volte meno, a volte il mio carattere ha la meglio su ciò che
cerco di capire, ma in generale la mia scrittura è emotiva, basata su stimoli
che si ripercuotono sullo spirito ed è da lì che le situazioni si costruiscono,
partono, cambiano.
Sovente ricevo commenti dai miei lettori che si
meravigliano di come, leggendo le mie opere, abbiano l’impressione di essere lì.
E questo mi piace.
Mi piace perché non significa tanto che io sia
talentuosa, bensì perché ho la conferma che esistono lettori sulla mia stessa
lunghezza d’onda, che sono in grado di cogliere un termine messo al posto
giusto, di afferrare il lieve gesto di un personaggio, di calarsi in una
descrizione dai connotati più o meno specifici.
Sono felice quando i miei lettori si sentono
coinvolti.
Sul serio.
Perché allora ho la certezza che le mie non
sono solo parole piazzate su una pagina bianca.
Ma sono sentimenti. Persone. Paesi. Esperienze.
Sono momenti e identità non reali ma
realistici, che chiunque potrebbe vivere, in cui chiunque potrebbe
immedesimarsi, in cui chiunque leggendo potrebbe riconoscersi e pensare “Anche
a me capita di sentirmi così”.
Chiaro che i miei ispirati voli pindarici
talvolta finiscano dritti contro un cavo dell’alta tensione.
Ho ricevuto anche commenti di chi mi
etichettava come “noiosissima” per via della mia minuzia di particolari, delle
articolate riflessioni dei miei personaggi, dell’apparente lentezza di alcuni
episodi rispetto ad altri.
C’è stato anche chi mi ha additato come
un’autrice che fa di tutto per impressionare, a discapito della naturalezza.
E mi va bene così.
In primo luogo, mi rendo conto di come la
letteratura sia un vasto universo la cui prospettiva non è mai identica per più
di una persona. Storia, trama, stile, registro, scelta delle parole, per non
parlare di età, contesto, momento della vita, letture precedenti, tutte
variabili che condizionano il lettore ad apprezzare o no un libro. Io stessa
sono di gusti assai difficili (chi si è beccato una mia stroncatura lo sa bene)
ma in contemporanea so che, presto o tardi, ci sarà qualcuno che invece avrà
amato tale libro perché più attinente al suo mondo, ai suoi gusti, alle sue
idee.
In secundis, si ripresenta il solito dilemma:
un autore scrive per se stesso o per gli altri?
In termini di marketing, si dovrebbe agire in
funzione del cliente. Effettuare una ricerca di mercato, esaminarne i risultati
e poi elaborare una strategia ad hoc, che ne soddisfi i bisogni e vada incontro
ai suoi desideri.
Bene. La creatività non funziona così.
Tantomeno la mia.
Io scrivo – ribadisco – perché adoro farlo. Scrivo
perché mi viene naturale come respirare. Gioco con le figure retoriche, congiungo
concetti opposti, partorisco personaggi come sollazzo personale. Quando non
sono davanti allo schermo del pc prendo appunti, evidenzio passaggi sui testi,
scatto fotografie perché sarà bellissima la sfida di impastarli in un capitolo
per dare loro una nuova dimensione.
E me ne fregherà qualcosa di un eventuale
opinione altrui soltanto dopo, quando
il mio ego si sarà placato e il seme il mio interno avrà aggiunto l’ennesima
foglia alle sue fronde.
Però, attenzione, non sono impermeabile alle
critiche.
Sono cosciente dei miei limiti nella scrittura,
dei difetti di forma e degli errori in cui incappo malvolentieri, e apprezzo
che mi si vengano fatti notare, per poterli aggiustare se necessario. Aggiungo
sempre una piccola postilla alla fine dei miei scritti, in cui prego di
inviarmi un messaggio nel caso il lettore abbia scorto un refuso, o non abbia
afferrato il senso di una subordinata, o se pensi che un certo paragrafo non
sia altro che una ridondanza inutile ai fini dello svolgimento.
Il mio stile è in perenne mutamento – leggere i
miei racconti del 2011 per credere – e seppur non creda nella perfezione, adoro
rincorrere il fluttuante ideale narrativo che credo mi rispecchi, ribollente ma
che sto provando a limare in modo che, perlomeno, la radice rimanga solida e
fertile.
E come sopra annotavo, non è possibile crescere
senza risorse provenienti da oltre la nostra sottile corazza di cristallo. Un
occhio estraneo, un parere sincero, un’osservazione diretta sono preziosi doni per
me come lo è il tesoro per un drago, perché vanno a nutrire quel seme da cui
dipendo.
Senza il quale, non sarei Livin.
Ah, l’avevo detto che amo parlare di me…
Aggiornato al 30/10/2018
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