[In anteprima] I primi TRE capitoli di "Arrivò i primi di gennaio"

Il primo romanzo della dilogia Teenage Dreams, "Arrivò i primi di gennaio" vedrà la luce il 2 ottobre 2019... ma perché intanto non godervi un anteprima per conoscerne i protagonisti?

Per rinfrescarvi la memoria...
Tra i corridoi della Franklin Gooding Junior High School, Vermont, c'è sempre un gran daffare.
Suze ha appena scoperto di essere incinta del fidanzato già bello che partito per New York, all'inseguimento di un sogno che sembra non gli lasci nemmeno il tempo di guardarsi indietro.
Ash è il playboy della scuola, la borsa di studio in tasca e un futuro pieno di aspettative, nonché di un piccolo segreto che sa che non potrà tenere proprio per sempre.
E un freddo giorno di gennaio ecco arrivare Lian, con l'abbronzatura di Los Angeles e gli occhi turchesi, eccentrico, brillante, linguacciuto e bellissimo, pronto a creare scompiglio e farsi perdonare scoccando incantevoli sorrisi.
Senza dimenticare Gloria, Neil, Jamie, Cody, Chris, Lauren e una girandola di compagni vecchi e nuovi, deliziose infatuazioni arcobaleno, insegnanti fuori dagli schemi, suggestive escursioni sulle Green Mountains, baci rubati sotto fiocchi di neve e vere amicizie che sfidano il tempo e le distanze.
D'altronde, se non è movimentata, che adolescenza è?
Ci siamo? Bene.
Ecco qui, soltanto per voi, i primi tre capitoli del romanzo!
Poi non ditemi che non vi vizio. ;)
Buona lettura.


Suze

Teneva la mano premuta sulla bocca talmente forte che le unghie le si conficcavano nella guancia, disegnando mezzelune profonde e perfette. Il pizzicore si stava intensificando, ma Suze non vi badava.
Gli occhi erano fissi sulle linee rettangolari, di pochi millimetri di spessore e di lunghezza. Due maledette lineette di un indaco spento, nel mezzo di un altro rettangolo dallo sfondo bianco, immacolato, che sembrava evidenziare ciò che aveva davanti, ovvero una nuda verità che la logica di Suze stava cercando di smontare. Forse era un errore di fabbricazione. Forse non aveva letto bene il bugiardino. Forse non aveva fatto le cose a dovere. Forse qualcosa che aveva mangiato aveva falsato il risultato.
Le ci vollero cinque minuti buoni per spostare la mano e riprendere a respirare normalmente. Un tremito l’assaliva a ondate, i brividi le agitavano il petto, il ventre, le gambe rendendole molli, aveva la vista appannata ma non ne era certa. Non che se ne curasse: la realtà parve appartenere a un’altra dimensione.
Il test di gravidanza era positivo. Positivo, positivo, positivo.
Il colore delle due stanghette ora era diventato prugna, vivido, visibile e non fraintendibile.
Abbandonò il test sul mobiletto e si posò i palmi sulle cosce, inspirando a più riprese.
Non poteva essere.
Non. Poteva. Essere.
Con la mente tornò all’ultima volta che lei e Benedict avevano fatto l’amore. Un mese prima, forse un mese e mezzo. Possibile che non si trattasse di un semplice ritardo? Com’era successo? Non l’avevano mai fatto senza preservativo, mai. Che si fosse rotto e nessuno dei due se ne fosse accorto?
Un vago senso di malessere le formò un grumo in gola, impedendole di deglutire.
Doveva levarsi ogni dubbio. I test di gravidanza non erano infallibili, avevano l’1% di margine di errore e, per quanto poco fosse, poteva benissimo essere il suo caso. Perché no?
Raddrizzò le spalle, sospirando a metà, come se avesse paura di attirare su di sé l’attenzione del cosmo che le aveva giocato uno scherzo di cattivo gusto. Si alzò ancora malferma e afferrò la stecca bianca e leggera, alla cui estremità non smettevano di svettare le linee, sfacciate e insinuanti. La gettò nel cestino e richiuse il coperchio, posandovi sopra un piede per impedire che quel segreto trapelasse.
Doveva andare al consultorio il prima possibile. Con la mente che tornava lucida, calcolò l’orario scolastico e cercò un buco nella sua agenda immaginaria che le permettesse di andare e tornare, forse domani, forse oggi stesso.
Doveva chiamare Benedict? Doveva metterlo al corrente su cosa stesse succedendo o era meglio non creare inutile allarmismo? E se si fosse trattata di una semplice, stupidissima inesattezza?
E se invece il test stesse dicendo la verità e Suze fosse…
Si torturò la frangetta, scompigliandola, lisciandola, arricciandola. Una sorta di intorpidimento le aveva liberato le vie respiratorie ma il peso si era spostato allo stomaco, ai polmoni, e il senso di nausea svaniva e ricompariva, la testa piena di ovatta.
«Suze? Suze, tutto a posto?»
La voce di suo padre la trapassò, la pelle d’oca la investì e Suze si rese conto di star sudando freddo.
«Bene, bene… Arrivo subito!» replicò, più stridula del consueto.
Normale. Doveva essere normale. Sembrare normale, fare finta di nulla, dimenticarsi di quel mastodontico dettaglio fino a che non avesse trovato un punto di luce nel caos, e fino a quel momento l’idea della gravidanza sarebbe rimasta un fantasma, una fantasia di quelle che evaporavano dopo essersi svegliati la mattina.
Riaprì il sacchetto dal cestino mezzo vuoto l’assenza degli assorbenti e la presenza della barretta le strizzò le viscere in una morsa – lo sfilò e lo chiuse adoperando il fragile filo di plastica.
A tradimento, gli occhi le si riempirono di lacrime ma le ricacciò indietro. Non era il caso di disperarsi, né di farsi prendere dal panico. Era ora di andare a scuola.
Lanciò un’occhiata alla propria immagine riflessa nello specchio, come per accertarsi di essere intera, composta, normale. Tirò il maglioncino sul ventre, non piatto ma nemmeno meritevole di sospetti, insignificante.
La bocca si piegò in un sorriso all’etere, falso, così falso e molle che sperò non si sciogliesse in un pianto.
Girò la chiave e uscì. Suo padre era in cucina. Udiva l’acqua del lavandino scorrere e il rumore delle stoviglie che venivano sciacquate e posate sulla griglia per asciugarsi alla frizzante aria di gennaio. Suze corse in camera, posò la borsina verde menta a terra e si infilò la giacca senza perderla di vista un secondo. Assestò la tracolla sulla spalla e la riprese al volo, strinse il solco del laccio come se avesse voluto strozzarla, ucciderla, annientarla.
«Suze, vuoi i muffin di ieri? Ne sono rimasti due al limone e uno al cioccolato.» Suo padre era sorridente, radioso come sempre, biondo e all’oscuro della tempesta che le stava azzannando l’animo.
«No, grazie, li lascio per la mamma.» Si arrestò sulla soglia della cucina, a osservare le sue spalle ampie, le scapole che si muovevano sotto una maglietta troppo leggera per l’inverno. Bart si voltò – non si era fatto la barba – e le rivolse un sorriso interrogativo.
«Sì?»
La verità le risalì l’esofago, sleale e devastante. Il desiderio di condividere l’ansia, di sfogarsi, di gridare quanto quell’imprevisto la stesse terrorizzando.
Irrigidì la mascella e il sorriso finto sfumò. Sentì freddo alle guance.
«Niente. Vado. Ciao.»
Non incrociò il suo sguardo. Si avviò alla porta con passo troppo lungo e uscì di fretta, trasformata un blocco di esile cristallo.


Lian

Più in alto dell’entrata principale campeggiava la scritta a lettere cubitali, in rilievo di almeno sei centimetri, di un color argento fulgido e lucido. Quasi ci passassero la cera tutti i giorni.
C’era scritto Franklin Gooding Valley High School. Ogni volta che lo si leggeva, pareva che dalle due finestre poste sopra Gooding e High uscissero folate di brillantini glitterati e, in sottofondo, profondi sospiri di intenso, stucchevole e patriottico orgoglio.
Lian aspirò una boccata dalla sigaretta, col naso all’insù a osservare l’innegabile presenza scenica della facciata del suo nuovo liceo. L’edificio aveva un che di antico che gli ricordava i college inglesi, con i mattoni incastonati con l’accuratezza di un gioco di abilità, delimitati da sottili strisce di cemento dipinto di un professionale color cacao, e la bizzarra sensazione che suscitava il mescolamento tra liberale, moderno, coloniale, rigido e pretenzioso.
Le ampie ante del portone d’ingresso erano di vetro spesso, zigrinate in due fasce orizzontali che facevano risaltare l’acronimo di ciò che stava scritto qualche metro più su.
Putacaso qualcuno non l’avesse notato.
Aspirò di nuovo ed espirò il fumo dalle narici, col collo che doleva un poco per la posizione scomoda. Infilò una mano guantata nella tasca della giacca ed estrasse l’iPhone quel tanto che bastava per controllare l’orario. Era in ritardo di quaranta minuti.
Non male come primo giorno.
Aveva acidità di stomaco – come tutti i primi giorni – e probabilmente il caffè che aveva ingoiato bollente un quarto d’ora prima non lo stava aiutando.
Un’ultima boccata e schiacciò il mozzicone contro il disco del posacenere annesso al portarifiuti e ve lo gettò, decidendosi a entrare. Abbassò la maniglia laccata e spinse.
All’interno c’era caldo, un corroborante tepore umidiccio che profumava di vaniglia non troppo dolce. Le pareti erano bianche e tappezzate di fogli volanti, attestati di riconoscimento incorniciati, fotografie di sconosciuti che stringevano mani a personaggi ancora più sconosciuti, poster contro l’anoressia e il bullismo, e un’enorme bacheca con gli annunci più disparati, che andavano dal cercare un bassista per una band all’appello di chi cercava testi di biologia usati.
Lian sarebbe rimasto volentieri lì davanti, a leggere e curiosare, ma la sua parte razionale lo informò che era arrivato il momento di fare il bravo. Imboccò il corridoio di sinistra mentre si sfilava i guanti e li gettava in una tasca qualsiasi della tracolla, lo percorse per qualche metro, poi di nuovo a sinistra, seguendo le indicazioni della mail ricevuta settimane prima. Di tanto in tanto udiva rumori di tacchi alti o risuonare di voci, donne che ridevano, trilli non identificati, ma dovette ammettere che l’ambiente era tranquillo. Insolito. Sereno. Calmo. Eppure, comunque americano.
Ma d’altronde quella era la Franklin Gooding Valley High School. Chi era quel farabutto che si sarebbe immaginato qualcosa di diverso?
Trovò l’ufficio del consulente scolastico senza problemi. L’ennesima porta di vetro spesso, goffrata e insonorizzata – neanche a dirlo: con su zigrinata l’immancabile cifra – e accanto a essa un’altra bacheca di sughero, dove però erano appesi avvisi e cartoncini per qualunque tipo di aiuto di cui chiunque avrebbe potuto aver bisogno. Sostegno psicologico per studenti, e per genitori, numeri utili per chi avesse subito maltrattamenti a casa, o a scuola, o sui mezzi pubblici, brevi vademecum su cosa occorresse fare in caso qualcuno accusasse un malore, indirizzi di consultori e dipartimenti sanitari che Lian non sapeva esistessero.
Tenevano anche sedute degli alcolisti anonimi?
Bussò due volte, con garbo, evitando di indovinare le sagome di cosa ci fosse oltre. Attese cinque secondi. Al settimo una voce femminile gli concesse il permesso di entrare.
«Salve» esordì con un sorriso rassegnato, quello del buon viso a cattivo gioco.
Si stupì di ciò che vide.
Di solito i consulenti erano di mezza età, tracagnotti, ben messi e con sorrisi prossimi alla paresi, indossavano eccentrici abiti da grandi magazzini e ai polsi portavano orologi appariscenti o enormi bracciali pacchiani.
Quella che si trovò davanti, invece, era una bella ragazza. Bionda, i capelli mossi che le cadevano sulle spalle come acqua increspata, formosa, un seno di proporzioni appropriate e un viso grazioso, due pazienti occhi da gatta e le labbra dolci. Un paio di orecchini a forma di fragole dotate di pupille strabuzzate. Giovane. E pallidissima.
«Ciao, accomodati pure» lo salutò sollevando la testa dal documento che stava compilando, indicandogli la sedia di plastica arancione di fronte alla scrivania. «Tu sei il ragazzo nuovo, vero? Sei… Sei…» Frugò tra incartamenti e post-it con la fronte aggrottata, nascosta da una frangetta di perfezione geometrica.
«Lian» terminò per lei. «Killian Brethower.» Si accomodò poggiando la borsa accanto a sé e accavallò le gambe. «Killian Ellis Brethower.»
«Killian, sì…» confermò la ragazza. Parve spaesata per un attimo, poi si ricordò di sorridergli e di tendergli la mano. Era carina. «Scusami per la confusione. Io sono Suzanne Ollister, ma per tutti a scuola sono Suze.»
«Piacere di conoscerti» ricambiò il sorriso. «Non avevo idea che gli studenti potessero fare da consulenti.»
Suze rise, una risatina sensuale, delicata, mentre estraeva da un cassetto una cartelletta rossa che spalancò.
«I primi anni sono stata l’assistente della consulente, e quando è andata in pensione hanno pensato bene di evitare di spendere soldi e ci hanno messo me in cambio di qualche credito e una bella lettera di raccomandazione per l’università. Adesso sono all’ultimo anno» cinguettò con le gote che riacquistavano colore.
«Wow» si sentì in dovere di commentare, dandosi un’occhiata in giro. Rosso, arancio, giallo, verde e blu, scaffali lucidi, libri dalle copertine incellofanate. Un caleidoscopio studiato per stimolare le allucinazioni.
«Dunque, Killian…»
«Lian» precisò d’istinto. Si aspettò la legittima ramanzina per essere entrato in ritardo, ma non arrivò.
Suze lo squadrava a tratti, in tralice, poi spuntava caselle presenti qua e là sulle carte contenute nella carpetta.
Burocrazia studentesca. Sarebbe stato di gran lunga più divertente se Suze stesse compilando una valutazione basata sulla prima impressione. Magari la Franklin aveva standard talmente alti da aver ideato griglie per giudicare se un estraneo desideroso di entrare a far parte della congrega fosse un bullo, un criminale, una spia o uno psicotico armato che avrebbe potuto freddare venti persone in un giorno d’eclissi.
«Perché hai cambiato scuola a inizio semestre?» gli chiese la ragazza, ignara delle sue divagazioni visionarie.
«I miei viaggiano parecchio, per lavoro, ma stavolta hanno optato per stabilire il definitivo campo base qui» spiegò con semplicità.
«Bello.» Suze gli fece un sorriso di circostanza. «Che lavoro fanno?»
«Manager. Mia madre si occupa dell’organizzazione di eventi di beneficenza, sportivi, fiere, mio padre invece di concerti, party, presentazioni… Roba così.»
«Mh-mh» annuì la ragazza, per nulla impressionata. Riprese a scribacchiare con la penna sulla cui estremità si ergeva un variopinto animaletto dai connotati non identificabili.
Lian lo trovava piacevole. Preferiva non avere più a che fare con consulenti zuccherosi che lo inondavano di moine pur di farlo sentire a casa, che lo trattavano come il figliolo perduto e ritrovato dopo una decade, o che passavano il tempo ad appioppargli problematiche surreali.
Suze si manteneva a distanza e sembrava non dare peso né al suo piercing né al suo taglio di capelli né il suo abbigliamento. Il che gli piacque.
Cominciava inaspettatamente bene.
«Ok.» Suze chiuse la cartelletta, posando la penna. «Probabile che ti ci vorrà un po’ per ambientarti, ma vedrai che ti piacerà.» Si alzò e andò a uno degli scaffali, quello rosso vivo. Fece scorrere l’anta e ficcò le dita tra grossi raccoglitori ed enormi buste di plastica trasparente. «Non abbiamo ancora ricevuto i tuoi documenti dalla scuola precedente ma immagino siano stati in vacanza anche loro, quindi credo arriveranno entro questa settimana. Intanto ti do…» Posò sulla scrivania una risma di opuscoli e plichi graffettati. «… i programmi delle materie, i libri di testo che puoi trovare usati cercando con cura nella bacheca all’entrata, gli orari, le tabelle dei corsi extra-curricolari, il calendario degli esami, la lista dei club nel caso ti voglia iscrivere…»
Ecco, quella era la parte che peggiorava l’acidità di stomaco di Lian. Informazioni, troppe, troppe indicazioni tra cui orientarsi ogni dannata volta, tra professori di cui non avrebbe ricordato i nomi, aule che non avrebbe trovato, club stravaganti a caccia di adesioni. Ma li accettò e li allineò docile, sospirando dentro di sé.
Sperò che il New England sarebbe davvero diventato il campo base.
«Le squadre ormai sono al completo ma se tu volessi provare a entrare in qualcuna fammelo sapere, potrei riuscire a farti avere qualche aggancio» continuò Suze, conciliante. «Suppongo che con alcune materie avrai bisogno di sostegno giacché il programma è diverso da quello seguito in California, vero?»
Giacché. Aveva sul serio detto giacché?
«Abbiamo diversi aiutanti che si occupano del range completo di studenti: freshman, sophomore e junior, e anche senior quando hanno bisogno dell’ultima spintarella, ma non si tratta di veri e propri gruppi di studio. Se hai qualche problema con una materia comunicamelo, e ti farò avere un appuntamento con un supporter, ok?» Attese che Lian scuotesse la testa per proseguire. «E, oh… tra due settimane c’è il Sadie’s Hoaks.» Gli porse il volantino con su stampata una tremenda fantasia di colori confetto che raffigurava una ninfa, o una fata, o una cosa del genere.
«Grazie, anche se penso sia tardi per me» rise.
«Le ragazze della Franklin sono molto intraprendenti. E tu sei un bel ragazzo.» Suze gli fece l’occhiolino. «Secondo me alla fine della giornata ci sarà la fila per le proposte.»
Lian si limitò a fare un sorriso a metà tra la perplessità e il divertimento.
Allora la consulente non aveva occhi soltanto per la burocrazia…
«Dunque… il tuo armadietto è il 34/A» dichiarò ricontrollando uno dei post-it, che incollò alla carpetta rossa. «Se vieni con me andiamo alla portineria e ci facciamo dare la combinazione, e ti mostrerò l’ala dov’è il tuo corridoio.»
«Stupendo.»
Lian raccattò la risma che Suze gli aveva consegnato e la ficcò nella tracolla, cosa che l’appesantì di almeno due chili. Prima di allontanarsi, Suze infilò nella maniglia un piccolo cartello con su scritto Torno subito.
Spaventoso.
«Purtroppo nemmeno noi sfuggiamo a saltuari episodi di bullismo e nonnismo» notificò, mentre camminavano fianco a fianco. Si voltò verso di lui con un sorrisino ironico. «Ma di solito con quelli alti e con le spalle quadrate non se la prende nessuno.»
Lian rise.
«M’impegnerò per tenermi fuori dai guai.»
«Sei uno che di solito li combina?» Lo chiese con aria divertita, da sorella maggiore.
«Di solito sono loro a combinarsi intorno a me.» Suze rise di nuovo.
«Sei un furbetto» riassunse col tono di chi fosse aduso a interpretare le persone. Tornati all’entrata si affacciarono alla soglia laterale, che dava su un grande ufficio che trasudava competenza, organizzazione e impegno.
«So farmi perdonare piuttosto bene» mormorò, sornione.
Suze lo studiò, da capo a piedi.
«Sì. Scommetto che riceverai un sacco di inviti per il Sadie’s» confermò a se stessa. Entrò e Lian la seguì, domandandosi se alla Franklin anche gli arcobaleni fossero intraprendenti.


Ash

«Gli italiani dovrebbero farsi meno seghe mentali» fu il commento di Neil, che frugava nel proprio armadietto. «Non bastava lo Spleen di Baudelaire, ci servivano anche le tre fasi del pessimismo.»
Ashley sorrise nel sistemare i libri di lingua. E imprecando sottovoce perché lo spazio lì dentro non era mai abbastanza. Un Senior non ne poteva chiedere uno più grande?
Qualcuno sferrò un pugno all’armadietto accanto al suo, provocando un gran sferragliare.
«Ehi, latin lover, perché non dici alla Paris Hilton dei poveri di dare una calmata agli ormoni?»
Gloria stava masticando una gomma dal raccapricciante sentore di liquirizia, il ciuffo tinto di nero le cadeva sull’occhio sinistro facendola ritornare al suo periodo emo.
«Ti sta ancora tormentando?» ridacchiò Neil.
«Si è seduta vicino a me a storia e ha passato l’intera ora a chiedermi di te.» Ficcò l’indice con l’unghia laccata nella spalla di Ashley, punzecchiandolo più volte. «Non eri tu quello che metteva subito in chiaro le cose?»
«È esattamente quello che ho fatto anche con lei» replicò tranquillo, infilando nella borsa il tomo di algebra avanzata. «Se sono così affascinante da distrarle mentre provano ad ascoltarmi non è colpa mia.» Si passò una mano tra i capelli con fare teatrale. Gloria inarcò le sopracciglia.
Era difficile batterla sul suo stesso terreno.
«La prossima volta le dirò che sei andato a letto con la sua migliore amica, così vi odierà entrambi.»
«La sua amica è quella che ha un neo sopra l’ombelico?» Sia lui che Gloria si misero a ridere.
«Ehi, c’è uno nuovo» disse Neil.
Ashley e Gloria si voltarono. All’altro lato del corridoio c’erano gli armadietti delle terze.
«Porcatroiachefigo.» Gloria si affrettò a portare la ciocca dietro l’orecchio per avere la visuale completa.
Quello nuovo si notava.
Uno stangone con un taglio di capelli improbabile e jeans talmente aderenti che Ashley non fece fatica a registrare la forma tonda e soda del fondoschiena. Indossava una giacca di denim imbottita che lo fasciava come se fosse fatta su misura, millimetro per millimetro. Accanto a lui c’era Suze che era tutta un sorriso, e che non gli arrivava nemmeno alla spalla.
Ashley tornò a concentrarsi sulla scelta dei libri per l’ora successiva, dando prima una rassicurante occhiata alla stampa della pin-up dalle labbra scarlatte che aveva appesa all’anta dell’armadietto. Ammiccava candida e maliziosa, con i seni messi in bellavista da un abito rosso vermiglio costellato di pois bianchi.
«Potrei chiedere a lui di venire al Sadie’s Hoaks» ragionò Gloria. «È il mio tipo.»
«Ma il tuo tipo non era quello sfigato del club di…»
«Neil, sei rimasto indietro, l’ho scaricato da settimane.»
«Ah…»
Ashley richiuse l’armadietto con un sospiro.
«Ci vediamo oggi, ragazzi» si congedò avviandosi verso le scale che portavano al secondo piano, senza voltarsi.
Gli studenti si smistavano nelle rispettive aule in un chiacchiericcio che si andava smorzando. Scese i gradini con calma, conscio che la professoressa Insky sarebbe arrivata col solito quarto d’ora di ritardo, quindi non c’era bisogno di mettersi fretta. Alle spalle udì passi che scendevano spediti, gli ci vollero pochi istanti per capire di chi si trattasse.
«Ash!» Suze gli afferrò un lembo del maglione, agitandolo come se dovesse usarlo per farsi aria. «Sei scappato senza una parola!» lo rimproverò, col tono di una maestrina.
«Eri impegnata a fare gli onori di casa con quella pertica, non volevo distoglierti dal compito» sorrise, riappropriandosi del suo indumento.
«Hai notato quant’è carino?» Finse di civettare, imitando a scelta una delle fanciulle frequentate da Ash. «Fa molto anni ’90 conciato in quel modo, vero? Ma è simpatico.» Sorrise. «Che ne diresti di portarlo a una partita, uno di questi giorni?»
«Ti direi di no.» Non era la prima volta che Suze tentava di fargli fare da baby-sitter a un novellino. «Lo sai che tratto novizi solo se questi indossano calze a rete, abitini aderenti con fiocchetti e la scollatura in evidenza.» Si fermarono nei pressi di un uscio aperto. Dalla classe si levava un brusio allegro, e un aeroplanino di carta entrò in collisione con la lavagna magnetica. «Inoltre, mi pare che stesse benissimo in tua compagnia.»
Suze sorrise alla frecciatina, ma non durò. D’un tratto si rabbuiò, e Ashley ebbe l’impressione che il sangue le fosse defluito dal volto all’improvviso, rendendolo una maschera di cera.
«Stai bene?» Aveva detto qualcosa di sbagliato? «Tu e Benedict avete litigato?»
«No…» soffiò lei. Scosse la testa con energia. «No, non ti preoccupare. Oggi ho… Fatico a concentrarmi.» Si passò le dita nella frangia e l’arricciò. Ashley la osservò dubbioso. La frangia era l’indicatore esterno di Suze, e ogni volta che lo toccava significava che le cose non andavano per il verso giusto.
«Sul serio, Suze?» Marcò l’ultima parola, un espediente che di norma la convinceva. «Cos’è successo?»
«Learson, che fa fuori dalla classe?» La Insky arrivò nel momento meno appropriato. «Non è l’ora di pausa. Si sbrighi o dovrà giustificare l’assenza che le segnerò.» Camminò in mezzo a loro, con le scarpe dal tacco vertiginoso che rumoreggiavano, smaltate di vernice verde pisello in tinta coi collant menta ricamati.
«Vai» annuì Suze. Che sembrò sollevata.
«Ehi, mi devi raccontare» sussurrò sulla soglia. «Ci vediamo all’uscita?»
Suze fece cenno di no e gli mimò il gesto di scrivergli un messaggio al cellulare. Dopodiché si voltò e zampettò via, come il personaggio di uno dei cartoni animati che guardava.
«Learson» lo riprese la Insky.
Ashley si sedette in uno dei banchi della prima fila, vuoti come di consueto, chiedendosi che diavolo fosse preso a Suze. A rifletterci, era difficile che avesse discusso con Benedict: la notte prima era rimasto in videochiamata con lui fino all’una e non aveva accennato a niente di simile, e Ashley dubitava che avessero potuto litigare di prima mattina.
La lavagna si riempì di calcoli, cifre, incognite e simboli, si udì lo sfogliare delle copertine dei quaderni e delle pagine, e poi l’unica voce fu quella della professoressa che teneva una lezione monocorde sull’aritmetica.
Ad Ashley la Insky non piaceva. La trovava fredda, sgarbata e noiosa, incapace di trasmettere i concetti chiave e di coinvolgere gli studenti, col risultato di arrivare alla fine dei semestri con valanghe di insufficienze per cui non faceva altro che lamentarsi di fronte al bancone della caffetteria. E, se possibile, le lezioni supplementari erano ancora peggio.
Per fortuna non erano problemi suoi, e tra qualche mese avrebbe considerato quella vistosa scorbutica e boriosa come un vago ricordo, fastidioso e marginale.
Si massaggiò la radice del naso con la gomma del portamine, ripensando a Suze e alla potenziale questione con Benedict.
La sua mente vagò ancora, un poco più indietro, a quando l’aveva scorta accanto al nuovo studente proveniente dalla California – che gli aveva nominato a dicembre dell’anno precedente.
Aggrottò la fronte, risolvendo distratto una funzione differenziabile.
Lo spilungone non c’entrava. Suze non era il genere di persona che si prendeva una cotta per il belloccio di turno, né tantomeno che si creasse problemi per un ragazzo appena conosciuto.
Si trattava di una delle loro faccende private in cui non doveva impicciarsi? Forse.
Seppure fosse strano che nessuno dei due non si fosse confidato.
Sospirò alzando gli occhi, incontrando una brutta scrittura storta e un’espressione che sarebbe stato in grado di risolvere a mente.
Si chiamava Lian. Che nome sciocco. Aveva dei capelli del cazzo. Un bel fisico. Un bel culo. E gli pareva di aver intravisto una bella bocca e un piercing.
Si batté il portamine sulla tempia, facendo uscire tre millimetri di grafite.
Non c’era ragione di pensarci. Si sarebbero incrociati ai cambi d’ora – forse neppure in tutti – ed era improbabile che avrebbero frequentato le stesse compagnie, a giudicare dal suo aspetto. Al termine dell’anno scolastico sarebbe diventato una macchiolina indistinta nei suoi ricordi, meno pregnante della Insky ma altrettanto trascurabile.
Riportò l’attenzione agli esercizi individuali, e un biglietto ripiegato a quadratino gli rotolò sul banco. Lanciò un’occhiata alla sua destra, appena indietro, dove Maggie Winter gli stava facendo l’occhiolino, arrotolandosi una ciocca intorno alla biro. Ashley le sorrise e sbirciò il bigliettino.
Rise senza rumore per la proposta esplicita che vi era scritta, e di nuovo si girò, con in sottofondo una voce roca e sgraziata che spiegava che il limite fosse da intendersi in relazione alla topologia del piano. Le diede conferma con uno sguardo d’intesa, rapido, essenziale, che non pretendeva preliminari. Infatti Maggie emise una risatina, guadagnandosi un richiamo dalla Insky.
Ashley tornò alla sua funzione con un sorrisetto sulle labbra, col buonumore che montava e riponeva in un cassetto a chiusura temporanea Suze, il nuovo venuto, e un’altra tremenda ora di inutili spiegazioni mal gestite.
Si prospettava un pranzo movimentato.



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