[In anteprima] I primi TRE capitoli di "Arrivò i primi di gennaio"
Il primo romanzo della dilogia Teenage Dreams, "Arrivò i primi di gennaio" vedrà la luce il 2 ottobre 2019... ma perché intanto non godervi un anteprima per conoscerne i protagonisti?
Per rinfrescarvi la memoria...
Tra i corridoi della Franklin Gooding Junior High School, Vermont, c'è sempre un gran daffare.
Suze ha appena scoperto di essere incinta del fidanzato già bello che partito per New York, all'inseguimento di un sogno che sembra non gli lasci nemmeno il tempo di guardarsi indietro.
Ash è il playboy della scuola, la borsa di studio in tasca e un futuro pieno di aspettative, nonché di un piccolo segreto che sa che non potrà tenere proprio per sempre.
E un freddo giorno di gennaio ecco arrivare Lian, con l'abbronzatura di Los Angeles e gli occhi turchesi, eccentrico, brillante, linguacciuto e bellissimo, pronto a creare scompiglio e farsi perdonare scoccando incantevoli sorrisi.
Senza dimenticare Gloria, Neil, Jamie, Cody, Chris, Lauren e una girandola di compagni vecchi e nuovi, deliziose infatuazioni arcobaleno, insegnanti fuori dagli schemi, suggestive escursioni sulle Green Mountains, baci rubati sotto fiocchi di neve e vere amicizie che sfidano il tempo e le distanze.
D'altronde, se non è movimentata, che adolescenza è?
Ci siamo? Bene.
Ecco qui, soltanto per voi, i primi tre capitoli del romanzo!
Poi non ditemi che non vi vizio. ;)
Buona lettura.
Suze
Teneva la mano premuta sulla bocca talmente
forte che le unghie le si conficcavano nella guancia, disegnando mezzelune
profonde e perfette. Il pizzicore si stava intensificando, ma Suze non vi
badava.
Gli occhi erano fissi sulle linee rettangolari,
di pochi millimetri di spessore e di lunghezza. Due maledette lineette di un
indaco spento, nel mezzo di un altro rettangolo dallo sfondo bianco,
immacolato, che sembrava evidenziare ciò che aveva davanti, ovvero una nuda
verità che la logica di Suze stava cercando di smontare. Forse era un errore di
fabbricazione. Forse non aveva letto bene il bugiardino. Forse non aveva fatto
le cose a dovere. Forse qualcosa che aveva mangiato aveva falsato il risultato.
Le ci vollero cinque minuti buoni per spostare
la mano e riprendere a respirare normalmente. Un tremito l’assaliva a ondate, i
brividi le agitavano il petto, il ventre, le gambe rendendole molli, aveva la
vista appannata ma non ne era certa. Non che se ne curasse: la realtà parve
appartenere a un’altra dimensione.
Il test di gravidanza era positivo. Positivo,
positivo, positivo.
Il colore delle due stanghette ora era
diventato prugna, vivido, visibile e non fraintendibile.
Abbandonò il test sul mobiletto e si posò i
palmi sulle cosce, inspirando a più riprese.
Non poteva essere.
Non. Poteva. Essere.
Con la mente tornò all’ultima volta che lei e
Benedict avevano fatto l’amore. Un mese prima, forse un mese e mezzo. Possibile
che non si trattasse di un semplice ritardo? Com’era successo? Non l’avevano
mai fatto senza preservativo, mai. Che si fosse rotto e nessuno dei due se ne
fosse accorto?
Un vago senso di malessere le formò un grumo in
gola, impedendole di deglutire.
Doveva levarsi ogni dubbio. I test di
gravidanza non erano infallibili, avevano l’1% di margine di errore e, per
quanto poco fosse, poteva benissimo essere il suo caso. Perché no?
Raddrizzò le spalle, sospirando a metà, come se
avesse paura di attirare su di sé l’attenzione del cosmo che le aveva giocato
uno scherzo di cattivo gusto. Si alzò ancora malferma e afferrò la stecca
bianca e leggera, alla cui estremità non smettevano di svettare le linee,
sfacciate e insinuanti. La gettò nel cestino e richiuse il coperchio, posandovi
sopra un piede per impedire che quel segreto trapelasse.
Doveva andare al consultorio il prima
possibile. Con la mente che tornava lucida, calcolò l’orario scolastico e cercò
un buco nella sua agenda immaginaria che le permettesse di andare e tornare,
forse domani, forse oggi stesso.
Doveva chiamare Benedict? Doveva metterlo al
corrente su cosa stesse succedendo o era meglio non creare inutile allarmismo?
E se si fosse trattata di una semplice, stupidissima inesattezza?
E se invece il test stesse dicendo la verità e
Suze fosse…
Si torturò la frangetta, scompigliandola,
lisciandola, arricciandola. Una sorta di intorpidimento le aveva liberato le
vie respiratorie ma il peso si era spostato allo stomaco, ai polmoni, e il
senso di nausea svaniva e ricompariva, la testa piena di ovatta.
«Suze? Suze, tutto a posto?»
La voce di
suo padre la trapassò, la pelle d’oca la investì e Suze si rese conto di star
sudando freddo.
«Bene,
bene… Arrivo subito!» replicò, più stridula del consueto.
Normale. Doveva essere normale. Sembrare
normale, fare finta di nulla, dimenticarsi di quel mastodontico dettaglio fino
a che non avesse trovato un punto di luce nel caos, e fino a quel momento
l’idea della gravidanza sarebbe rimasta un fantasma, una fantasia di quelle che
evaporavano dopo essersi svegliati la mattina.
Riaprì il sacchetto dal cestino mezzo vuoto
– l’assenza degli assorbenti e
la presenza della barretta le strizzò le viscere in una morsa – lo sfilò e lo
chiuse adoperando il fragile filo di plastica.
A tradimento, gli occhi le si riempirono di
lacrime ma le ricacciò indietro. Non era il caso di disperarsi, né di farsi
prendere dal panico. Era ora di andare a scuola.
Lanciò un’occhiata alla propria immagine
riflessa nello specchio, come per accertarsi di essere intera, composta, normale. Tirò il maglioncino sul ventre,
non piatto ma nemmeno meritevole di sospetti, insignificante.
La bocca si piegò in un sorriso all’etere,
falso, così falso e molle che sperò non si sciogliesse in un pianto.
Girò la chiave e uscì. Suo padre era in cucina.
Udiva l’acqua del lavandino scorrere e il rumore delle stoviglie che venivano
sciacquate e posate sulla griglia per asciugarsi alla frizzante aria di
gennaio. Suze corse in camera, posò la borsina verde menta a terra e si infilò
la giacca senza perderla di vista un secondo. Assestò la tracolla sulla spalla
e la riprese al volo, strinse il solco del laccio come se avesse voluto
strozzarla, ucciderla, annientarla.
«Suze, vuoi i muffin di ieri? Ne sono rimasti
due al limone e uno al cioccolato.» Suo padre era sorridente, radioso come
sempre, biondo e all’oscuro della tempesta che le stava azzannando l’animo.
«No, grazie, li lascio per la mamma.» Si
arrestò sulla soglia della cucina, a osservare le sue spalle ampie, le scapole
che si muovevano sotto una maglietta troppo leggera per l’inverno. Bart si
voltò – non si era fatto la barba – e le rivolse un sorriso interrogativo.
«Sì?»
La verità le risalì l’esofago, sleale e
devastante. Il desiderio di condividere l’ansia, di sfogarsi, di gridare quanto
quell’imprevisto la stesse terrorizzando.
Irrigidì la mascella e il sorriso finto sfumò.
Sentì freddo alle guance.
«Niente. Vado. Ciao.»
Non incrociò il suo sguardo. Si avviò alla
porta con passo troppo lungo e uscì di fretta, trasformata un blocco di esile
cristallo.
Lian
Più in alto dell’entrata principale campeggiava
la scritta a lettere cubitali, in rilievo di almeno sei centimetri, di un color
argento fulgido e lucido. Quasi ci passassero la cera tutti i giorni.
C’era scritto Franklin Gooding Valley High School. Ogni volta che lo si leggeva,
pareva che dalle due finestre poste sopra Gooding
e High uscissero folate di
brillantini glitterati e, in sottofondo, profondi sospiri di intenso,
stucchevole e patriottico orgoglio.
Lian aspirò una boccata dalla sigaretta, col
naso all’insù a osservare l’innegabile presenza scenica della facciata del suo
nuovo liceo. L’edificio aveva un che di antico che gli ricordava i college
inglesi, con i mattoni incastonati con l’accuratezza di un gioco di abilità,
delimitati da sottili strisce di cemento dipinto di un professionale color
cacao, e la bizzarra sensazione che suscitava il mescolamento tra liberale,
moderno, coloniale, rigido e pretenzioso.
Le ampie ante del portone d’ingresso erano di
vetro spesso, zigrinate in due fasce orizzontali che facevano risaltare
l’acronimo di ciò che stava scritto qualche metro più su.
Putacaso qualcuno non l’avesse notato.
Aspirò di nuovo ed espirò il fumo dalle narici,
col collo che doleva un poco per la posizione scomoda. Infilò una mano guantata
nella tasca della giacca ed estrasse l’iPhone quel tanto che bastava per
controllare l’orario. Era in ritardo di quaranta minuti.
Non male come primo giorno.
Aveva acidità di stomaco – come tutti i primi
giorni – e probabilmente il caffè che aveva ingoiato bollente un quarto d’ora
prima non lo stava aiutando.
Un’ultima boccata e schiacciò il mozzicone
contro il disco del posacenere annesso al portarifiuti e ve lo gettò,
decidendosi a entrare. Abbassò la maniglia laccata e spinse.
All’interno c’era caldo, un corroborante tepore
umidiccio che profumava di vaniglia non troppo dolce. Le pareti erano bianche e
tappezzate di fogli volanti, attestati di riconoscimento incorniciati,
fotografie di sconosciuti che stringevano mani a personaggi ancora più sconosciuti,
poster contro l’anoressia e il bullismo, e un’enorme bacheca con gli annunci
più disparati, che andavano dal cercare un bassista per una band all’appello di
chi cercava testi di biologia usati.
Lian sarebbe rimasto volentieri lì davanti, a
leggere e curiosare, ma la sua parte razionale lo informò che era arrivato il
momento di fare il bravo. Imboccò il corridoio di sinistra mentre si sfilava i
guanti e li gettava in una tasca qualsiasi della tracolla, lo percorse per
qualche metro, poi di nuovo a sinistra, seguendo le indicazioni della mail
ricevuta settimane prima. Di tanto in tanto udiva rumori di tacchi alti o
risuonare di voci, donne che ridevano, trilli non identificati, ma dovette
ammettere che l’ambiente era tranquillo. Insolito. Sereno. Calmo. Eppure,
comunque americano.
Ma d’altronde quella era la Franklin Gooding Valley High School. Chi
era quel farabutto che si sarebbe immaginato qualcosa di diverso?
Trovò l’ufficio del consulente scolastico senza
problemi. L’ennesima porta di vetro spesso, goffrata e insonorizzata – neanche
a dirlo: con su zigrinata l’immancabile cifra – e accanto a essa un’altra
bacheca di sughero, dove però erano appesi avvisi e cartoncini per qualunque tipo di aiuto di cui chiunque
avrebbe potuto aver bisogno. Sostegno psicologico per studenti, e per genitori,
numeri utili per chi avesse subito maltrattamenti a casa, o a scuola, o sui
mezzi pubblici, brevi vademecum su cosa occorresse fare in caso qualcuno
accusasse un malore, indirizzi di consultori e dipartimenti sanitari che Lian
non sapeva esistessero.
Tenevano anche sedute degli alcolisti anonimi?
Bussò due volte, con garbo, evitando di
indovinare le sagome di cosa ci fosse oltre. Attese cinque secondi. Al settimo
una voce femminile gli concesse il permesso di entrare.
«Salve» esordì con un sorriso rassegnato,
quello del buon viso a cattivo gioco.
Si stupì di ciò che vide.
Di solito i consulenti erano di mezza età,
tracagnotti, ben messi e con sorrisi prossimi alla paresi, indossavano
eccentrici abiti da grandi magazzini e ai polsi portavano orologi appariscenti
o enormi bracciali pacchiani.
Quella che si trovò davanti, invece, era una
bella ragazza. Bionda, i capelli mossi che le cadevano sulle spalle come acqua
increspata, formosa, un seno di proporzioni appropriate e un viso grazioso, due
pazienti occhi da gatta e le labbra dolci. Un paio di orecchini a forma di
fragole dotate di pupille strabuzzate. Giovane. E pallidissima.
«Ciao, accomodati pure» lo salutò sollevando la
testa dal documento che stava compilando, indicandogli la sedia di plastica
arancione di fronte alla scrivania. «Tu sei il ragazzo nuovo, vero? Sei… Sei…»
Frugò tra incartamenti e post-it con la fronte aggrottata, nascosta da una
frangetta di perfezione geometrica.
«Lian» terminò per lei. «Killian Brethower.» Si
accomodò poggiando la borsa accanto a sé e accavallò le gambe. «Killian Ellis
Brethower.»
«Killian, sì…» confermò la ragazza. Parve
spaesata per un attimo, poi si ricordò di sorridergli e di tendergli la mano.
Era carina. «Scusami per la confusione. Io sono Suzanne Ollister, ma per tutti
a scuola sono Suze.»
«Piacere di conoscerti» ricambiò il sorriso.
«Non avevo idea che gli studenti potessero fare da consulenti.»
Suze rise, una risatina sensuale, delicata,
mentre estraeva da un cassetto una cartelletta rossa che spalancò.
«I primi anni sono stata l’assistente della
consulente, e quando è andata in pensione hanno pensato bene di evitare di
spendere soldi e ci hanno messo me in cambio di qualche credito e una bella
lettera di raccomandazione per l’università. Adesso sono all’ultimo anno»
cinguettò con le gote che riacquistavano colore.
«Wow» si sentì in dovere di commentare, dandosi
un’occhiata in giro. Rosso, arancio, giallo, verde e blu, scaffali lucidi,
libri dalle copertine incellofanate. Un caleidoscopio studiato per stimolare le
allucinazioni.
«Dunque, Killian…»
«Lian» precisò d’istinto. Si aspettò la
legittima ramanzina per essere entrato in ritardo, ma non arrivò.
Suze lo squadrava a tratti, in tralice, poi
spuntava caselle presenti qua e là sulle carte contenute nella carpetta.
Burocrazia studentesca. Sarebbe stato di gran
lunga più divertente se Suze stesse compilando una valutazione basata sulla
prima impressione. Magari la Franklin
aveva standard talmente alti da aver ideato griglie per giudicare se un
estraneo desideroso di entrare a far parte della congrega fosse un bullo, un
criminale, una spia o uno psicotico armato che avrebbe potuto freddare venti
persone in un giorno d’eclissi.
«Perché hai cambiato scuola a inizio semestre?»
gli chiese la ragazza, ignara delle sue divagazioni visionarie.
«I miei viaggiano parecchio, per lavoro, ma
stavolta hanno optato per stabilire il definitivo campo base qui» spiegò con
semplicità.
«Bello.» Suze gli fece un sorriso di
circostanza. «Che lavoro fanno?»
«Manager. Mia madre si occupa
dell’organizzazione di eventi di beneficenza, sportivi, fiere, mio padre invece
di concerti, party, presentazioni… Roba così.»
«Mh-mh» annuì la ragazza, per nulla
impressionata. Riprese a scribacchiare con la penna sulla cui estremità si
ergeva un variopinto animaletto dai connotati non identificabili.
Lian lo trovava piacevole. Preferiva non avere
più a che fare con consulenti zuccherosi che lo inondavano di moine pur di
farlo sentire a casa, che lo trattavano come il figliolo perduto e ritrovato
dopo una decade, o che passavano il tempo ad appioppargli problematiche
surreali.
Suze si manteneva a distanza e sembrava non
dare peso né al suo piercing né al suo taglio di capelli né il suo
abbigliamento. Il che gli piacque.
Cominciava inaspettatamente bene.
«Ok.» Suze chiuse la cartelletta, posando la
penna. «Probabile che ti ci vorrà un po’ per ambientarti, ma vedrai che ti
piacerà.» Si alzò e andò a uno degli scaffali, quello rosso vivo. Fece scorrere
l’anta e ficcò le dita tra grossi raccoglitori ed enormi buste di plastica
trasparente. «Non abbiamo ancora ricevuto i tuoi documenti dalla scuola
precedente ma immagino siano stati in vacanza anche loro, quindi credo
arriveranno entro questa settimana. Intanto ti do…» Posò sulla scrivania una
risma di opuscoli e plichi graffettati. «… i programmi delle materie, i libri
di testo che puoi trovare usati cercando con cura nella bacheca all’entrata,
gli orari, le tabelle dei corsi extra-curricolari, il calendario degli esami,
la lista dei club nel caso ti voglia iscrivere…»
Ecco, quella
era la parte che peggiorava l’acidità di stomaco di Lian. Informazioni, troppe,
troppe indicazioni tra cui orientarsi ogni dannata volta, tra professori di cui
non avrebbe ricordato i nomi, aule che non avrebbe trovato, club stravaganti a
caccia di adesioni. Ma li accettò e li allineò docile, sospirando dentro di sé.
Sperò che il New England sarebbe davvero
diventato il campo base.
«Le squadre ormai sono al completo ma se tu
volessi provare a entrare in qualcuna fammelo sapere, potrei riuscire a farti
avere qualche aggancio» continuò Suze, conciliante. «Suppongo che con alcune
materie avrai bisogno di sostegno giacché il programma è diverso da quello
seguito in California, vero?»
Giacché.
Aveva sul serio detto giacché?
«Abbiamo diversi aiutanti che si occupano del
range completo di studenti: freshman, sophomore e junior, e anche senior quando
hanno bisogno dell’ultima spintarella, ma non si tratta di veri e propri gruppi
di studio. Se hai qualche problema con una materia comunicamelo, e ti farò
avere un appuntamento con un supporter,
ok?» Attese che Lian scuotesse la testa per proseguire. «E, oh… tra due
settimane c’è il Sadie’s Hoaks.» Gli
porse il volantino con su stampata una tremenda fantasia di colori confetto che
raffigurava una ninfa, o una fata, o una cosa del genere.
«Grazie, anche se penso sia tardi per me» rise.
«Le ragazze della Franklin sono molto
intraprendenti. E tu sei un bel ragazzo.» Suze gli fece l’occhiolino. «Secondo
me alla fine della giornata ci sarà la fila per le proposte.»
Lian si limitò a fare un sorriso a metà tra la
perplessità e il divertimento.
Allora la consulente non aveva occhi soltanto
per la burocrazia…
«Dunque… il tuo armadietto è il 34/A» dichiarò
ricontrollando uno dei post-it, che incollò alla carpetta rossa. «Se vieni con
me andiamo alla portineria e ci facciamo dare la combinazione, e ti mostrerò
l’ala dov’è il tuo corridoio.»
«Stupendo.»
Lian raccattò la risma che Suze gli aveva
consegnato e la ficcò nella tracolla, cosa che l’appesantì di almeno due chili.
Prima di allontanarsi, Suze infilò nella maniglia un piccolo cartello con su
scritto Torno subito.
Spaventoso.
«Purtroppo nemmeno noi sfuggiamo a saltuari
episodi di bullismo e nonnismo» notificò, mentre camminavano fianco a fianco.
Si voltò verso di lui con un sorrisino ironico. «Ma di solito con quelli alti e
con le spalle quadrate non se la prende nessuno.»
Lian rise.
«M’impegnerò per tenermi fuori dai guai.»
«Sei uno che di solito li combina?» Lo chiese
con aria divertita, da sorella maggiore.
«Di solito sono loro a combinarsi intorno a
me.» Suze rise di nuovo.
«Sei un furbetto» riassunse col tono di chi
fosse aduso a interpretare le persone. Tornati all’entrata si affacciarono alla
soglia laterale, che dava su un grande ufficio che trasudava competenza,
organizzazione e impegno.
«So farmi perdonare piuttosto bene» mormorò,
sornione.
Suze lo studiò, da capo a piedi.
«Sì. Scommetto che riceverai un sacco di inviti per il Sadie’s»
confermò a se stessa. Entrò e Lian la seguì, domandandosi se alla Franklin
anche gli arcobaleni fossero intraprendenti.
Ash
«Gli italiani dovrebbero farsi meno seghe
mentali» fu il commento di Neil, che frugava nel proprio armadietto. «Non
bastava lo Spleen di Baudelaire, ci servivano anche le tre fasi del
pessimismo.»
Ashley sorrise nel sistemare i libri di lingua.
E imprecando sottovoce perché lo spazio lì dentro non era mai abbastanza. Un
Senior non ne poteva chiedere uno più grande?
Qualcuno sferrò un pugno all’armadietto accanto
al suo, provocando un gran sferragliare.
«Ehi, latin lover, perché non dici alla Paris
Hilton dei poveri di dare una calmata agli ormoni?»
Gloria stava masticando una gomma dal
raccapricciante sentore di liquirizia, il ciuffo tinto di nero le cadeva
sull’occhio sinistro facendola ritornare al suo periodo emo.
«Ti sta ancora tormentando?» ridacchiò Neil.
«Si è seduta vicino a me a storia e ha passato
l’intera ora a chiedermi di te.»
Ficcò l’indice con l’unghia laccata nella spalla di Ashley, punzecchiandolo più
volte. «Non eri tu quello che metteva subito in chiaro le cose?»
«È esattamente quello che ho fatto anche con
lei» replicò tranquillo, infilando nella borsa il tomo di algebra avanzata. «Se
sono così affascinante da distrarle mentre provano ad ascoltarmi non è colpa
mia.» Si passò una mano tra i capelli con fare teatrale. Gloria inarcò le
sopracciglia.
Era difficile batterla sul suo stesso terreno.
«La prossima volta le dirò che sei andato a
letto con la sua migliore amica, così vi odierà entrambi.»
«La sua amica è quella che ha un neo sopra
l’ombelico?» Sia lui che Gloria si misero a ridere.
«Ehi, c’è uno nuovo» disse Neil.
Ashley e Gloria si voltarono. All’altro lato
del corridoio c’erano gli armadietti delle terze.
«Porcatroiachefigo.» Gloria si affrettò a portare
la ciocca dietro l’orecchio per avere la visuale completa.
Quello
nuovo si notava.
Uno stangone con un taglio di capelli
improbabile e jeans talmente aderenti che Ashley non fece fatica a registrare
la forma tonda e soda del fondoschiena. Indossava una giacca di denim imbottita
che lo fasciava come se fosse fatta su misura, millimetro per millimetro.
Accanto a lui c’era Suze che era tutta un sorriso, e che non gli arrivava
nemmeno alla spalla.
Ashley tornò a concentrarsi sulla scelta dei
libri per l’ora successiva, dando prima una rassicurante occhiata alla stampa
della pin-up dalle labbra scarlatte che aveva appesa all’anta dell’armadietto.
Ammiccava candida e maliziosa, con i seni messi in bellavista da un abito rosso
vermiglio costellato di pois bianchi.
«Potrei chiedere a lui di venire al Sadie’s
Hoaks» ragionò Gloria. «È il mio tipo.»
«Ma il tuo tipo non era quello sfigato del club
di…»
«Neil, sei rimasto indietro, l’ho scaricato da
settimane.»
«Ah…»
Ashley richiuse l’armadietto con un sospiro.
«Ci vediamo oggi, ragazzi» si congedò
avviandosi verso le scale che portavano al secondo piano, senza voltarsi.
Gli studenti si smistavano nelle rispettive
aule in un chiacchiericcio che si andava smorzando. Scese i gradini con calma,
conscio che la professoressa Insky sarebbe arrivata col solito quarto d’ora di
ritardo, quindi non c’era bisogno di mettersi fretta. Alle spalle udì passi che
scendevano spediti, gli ci vollero pochi istanti per capire di chi si
trattasse.
«Ash!» Suze gli afferrò un lembo del maglione,
agitandolo come se dovesse usarlo per farsi aria. «Sei scappato senza una
parola!» lo rimproverò, col tono di una maestrina.
«Eri impegnata a fare gli onori di casa con
quella pertica, non volevo distoglierti dal compito» sorrise, riappropriandosi
del suo indumento.
«Hai notato quant’è carino?» Finse di
civettare, imitando a scelta una delle fanciulle frequentate da Ash. «Fa molto
anni ’90 conciato in quel modo, vero? Ma è simpatico.» Sorrise. «Che ne diresti
di portarlo a una partita, uno di questi giorni?»
«Ti direi di no.» Non era la prima volta che
Suze tentava di fargli fare da baby-sitter a un novellino. «Lo sai che tratto
novizi solo se questi indossano calze a rete, abitini aderenti con fiocchetti e
la scollatura in evidenza.» Si fermarono nei pressi di un uscio aperto. Dalla
classe si levava un brusio allegro, e un aeroplanino di carta entrò in
collisione con la lavagna magnetica. «Inoltre, mi pare che stesse benissimo in
tua compagnia.»
Suze sorrise alla frecciatina, ma non durò.
D’un tratto si rabbuiò, e Ashley ebbe l’impressione che il sangue le fosse
defluito dal volto all’improvviso, rendendolo una maschera di cera.
«Stai bene?» Aveva detto qualcosa di sbagliato?
«Tu e Benedict avete litigato?»
«No…» soffiò lei. Scosse la testa con energia.
«No, non ti preoccupare. Oggi ho… Fatico a concentrarmi.» Si passò le dita
nella frangia e l’arricciò. Ashley la osservò dubbioso. La frangia era
l’indicatore esterno di Suze, e ogni volta che lo toccava significava che le
cose non andavano per il verso giusto.
«Sul serio, Suze?» Marcò l’ultima parola, un
espediente che di norma la convinceva. «Cos’è successo?»
«Learson, che fa fuori dalla classe?» La Insky
arrivò nel momento meno appropriato. «Non è l’ora di pausa. Si sbrighi o dovrà
giustificare l’assenza che le segnerò.» Camminò in mezzo a loro, con le scarpe
dal tacco vertiginoso che rumoreggiavano, smaltate di vernice verde pisello in
tinta coi collant menta ricamati.
«Vai» annuì Suze. Che sembrò sollevata.
«Ehi, mi devi raccontare» sussurrò sulla soglia.
«Ci vediamo all’uscita?»
Suze fece cenno di no e gli mimò il gesto di
scrivergli un messaggio al cellulare. Dopodiché si voltò e zampettò via, come
il personaggio di uno dei cartoni animati che guardava.
«Learson»
lo riprese la Insky.
Ashley si sedette in uno dei banchi della prima
fila, vuoti come di consueto, chiedendosi che diavolo fosse preso a Suze. A
rifletterci, era difficile che avesse discusso con Benedict: la notte prima era
rimasto in videochiamata con lui fino all’una e non aveva accennato a niente di
simile, e Ashley dubitava che avessero potuto litigare di prima mattina.
La lavagna si riempì di calcoli, cifre,
incognite e simboli, si udì lo sfogliare delle copertine dei quaderni e delle
pagine, e poi l’unica voce fu quella della professoressa che teneva una lezione
monocorde sull’aritmetica.
Ad Ashley la Insky non piaceva. La trovava
fredda, sgarbata e noiosa, incapace di trasmettere i concetti chiave e di
coinvolgere gli studenti, col risultato di arrivare alla fine dei semestri con
valanghe di insufficienze per cui non faceva altro che lamentarsi di fronte al
bancone della caffetteria. E, se possibile, le lezioni supplementari erano
ancora peggio.
Per fortuna non erano problemi suoi, e tra
qualche mese avrebbe considerato quella vistosa scorbutica e boriosa come un
vago ricordo, fastidioso e marginale.
Si massaggiò la radice del naso con la gomma
del portamine, ripensando a Suze e alla potenziale questione con Benedict.
La sua mente vagò ancora, un poco più indietro,
a quando l’aveva scorta accanto al nuovo studente proveniente dalla California
– che gli aveva nominato a dicembre dell’anno precedente.
Aggrottò la fronte, risolvendo distratto una
funzione differenziabile.
Lo spilungone non c’entrava. Suze non era il
genere di persona che si prendeva una cotta per il belloccio di turno, né
tantomeno che si creasse problemi per un ragazzo appena conosciuto.
Si trattava di una delle loro faccende private
in cui non doveva impicciarsi? Forse.
Seppure fosse strano che nessuno dei due non si
fosse confidato.
Sospirò alzando gli occhi, incontrando una
brutta scrittura storta e un’espressione che sarebbe stato in grado di
risolvere a mente.
Si chiamava Lian. Che nome sciocco. Aveva dei
capelli del cazzo. Un bel fisico. Un bel culo. E gli pareva di aver intravisto
una bella bocca e un piercing.
Si batté il portamine sulla tempia, facendo
uscire tre millimetri di grafite.
Non c’era ragione di pensarci. Si sarebbero
incrociati ai cambi d’ora – forse neppure in tutti – ed era improbabile che
avrebbero frequentato le stesse compagnie, a giudicare dal suo aspetto. Al
termine dell’anno scolastico sarebbe diventato una macchiolina indistinta nei
suoi ricordi, meno pregnante della Insky ma altrettanto trascurabile.
Riportò l’attenzione agli esercizi individuali,
e un biglietto ripiegato a quadratino gli rotolò sul banco. Lanciò un’occhiata
alla sua destra, appena indietro, dove Maggie Winter gli stava facendo
l’occhiolino, arrotolandosi una ciocca intorno alla biro. Ashley le sorrise e
sbirciò il bigliettino.
Rise senza rumore per la proposta esplicita che
vi era scritta, e di nuovo si girò, con in sottofondo una voce roca e sgraziata
che spiegava che il limite fosse da intendersi in relazione alla topologia del
piano. Le diede conferma con uno sguardo d’intesa, rapido, essenziale, che non
pretendeva preliminari. Infatti Maggie emise una risatina, guadagnandosi un
richiamo dalla Insky.
Ashley tornò alla sua funzione con un
sorrisetto sulle labbra, col buonumore che montava e riponeva in un cassetto a
chiusura temporanea Suze, il nuovo venuto, e un’altra tremenda ora di inutili
spiegazioni mal gestite.
Si prospettava un pranzo movimentato.
Con la speranza che vi sia piaciuta questa lettura, non mi resta che invitarvi a scrivermi su qualunque social o canale per dirmi che ne pensate, nel caso aveste qualche osservazione o curiosità, o soltanto per parlare del più e del meno.
Ti va di leggere il seguito?
👉 Il formato digitale è disponibile su tutti gli store on-line.
👉 Il formato cartaceo lo puoi trovare QUI.
👉 Il formato cartaceo lo puoi trovare QUI.
Commenti